Boccaccio, uno dei suoi più fedeli “followers”, ci racconta che era nato 54 anni prima in riva d’Arno, e qui crebbe imbevendosi di quei principi di libertà ed indipendenza che a quel tempo dominavano la guelfa Repubblica di Firenze, fiera della sua potenza commerciale ed incredibilmente ricca.
Durante, detto Dante, fu prima di tutto un protagonista del suo tempo: un politico fervente, un soldato coraggioso, un padre di famiglia. Tutti invece lo immaginiamo curvo sui libri, agghindato con una toga rossa e coronato di alloro, come deve essere il più grande poeta che abbia calcato le strade di quella che solo molti secoli dopo sarebbe diventata l’Italia.
Lui, in effetti, ne stava creando un pezzettino piuttosto importante di quell’Italia: la lingua! Grazie alla geniale intuizione di elevare il volgare fiorentino a lingua formale, la sua opera gettò le fondamenta per la nostra meravigliosa lingua Italiana.
Ma il suo solo genio intuitivo non fece tutto. Il destino doveva completare l’opera.
Quando iniziò la scrittura del suo capolavoro, la Comedìa, si trovava infatti già in esilio, sbattuto fuori dalla sua terra natia, errante tra corti e castelli cercando rifugio, e fu allora che provò a cercare una lingua nuova, miscelando e combinando il volgare fiorentino con le innumerevoli lingue che andava scoprendo e imparando nelle sue peregrinazioni.
E così i diavoli del suo Inferno e gli angeli del Paradiso cominciarono a parlare con inflessioni liguri e romagnole, venete, lombarde o addirittura francesi.
La Commedia divenne un minestrone di lingue, ma molto ben fatto, e gli scrittori e poeti di tutta Italia presero a imitarla in ogni parte della penisola.
Che fortunata tragedia, alla fine, questo esilio! Probabilmente Dante ci sarebbe tornato volentieri a casa sua, ma allora -chissà?- non avremmo avuto la Divina Commedia, e Dante sarebbe stato ricordato come uno dei tanti poeti fiorentini.

Negli stessi anni un altro grande genio andava peregrinando per le città italiane, spargendo come una luminosa aurea la sua “lingua” pittorica, che di lì a poco avrebbe dato inizio alla irripetibile stagione del Rinascimento, traghettando il mondo da un superstizioso e crudo Medioevo alla serena ed illuminata era moderna. Era un altro “fiorentino” e si chiamava
Giotto, figlio di Bondone, nato in terra di Mugello.
La fortuna di entrambi - si direbbe - venne proprio dalla coincidenza di essere nati o cresciuti e maturati nel posto giusto, Firenze, ed al tempo stesso di essersene allontanati. Giotto lo fece per lavoro, Dante per forza.
Il 10 marzo del 1302, nella sala maggiore del Palazzo del Podestà (che oggi Chiamiamo Museo del Bargello e dove possiamo ammirare i capolavori di Donatello) viene pronunciata la seguente sentenza:
“Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”

Questa sentenza fa sempre un certo effetto su chi (tutti!) vede in Dante solo il “divino” poeta, un gigante irraggiungibile, talvolta l’emanazione stessa dello spirito di DIo sulla terra.
Ma a guardare bene, proprio uno stinco di santo non era, evidentemente.
Magari non tutte le accuse mosse da un tribunale piuttosto arrabbiato con tutti quelli come lui - i guelfi bianchi - sono fondate. Ma anche immaginarlo come vittima della magistratura sarebbe fargli un bel regalo!
In fondo, si racconta che il grande Guido Cavalcanti si vergognasse del suo amico, dedito alle passioni amorose e alle feste passate a bere e sfidare gli amici a colpi di sonetti ingiuriosi. E poi sappiamo che era sposato con una donna, Gemma, di cui non gli interessava proprio nulla, se non il cognome - Donati, importante famiglia fiorentina - ma in realtà il suo amore sconfinato era per la ben più celebre Beatrice, ragazza da bene sposata con un altro uomo.
Tra i due non ci fu che amore platonico, intendiamoci, ma chissà come la prendeva la povera Gemma...
Eppure allo stesso tempo fu teologo, filosofo raffinato e intellettuale di altissimo livello, appassionato studioso della cultura classica e di quella del suo tempo, grazie ai suoi studi presso i maggiori conventi della città ed alle sue frequentazioni con i più illustri poeti e scrittori fiorentini.
Se questi aspetti tra loro così diversi non ci tornano molto è probabilmente perché questa figura di Dante l’abbiamo un po’ (eufemismo) idealizzata.
Quando pensiamo a Dante potremmo invece figurarci proprio un essere umano, con tanti pregi ed alcuni difetti, come tutti noi.
Per i settecento anni dalla morte del Divino Poeta (1321) ci piace regalarvi un’immagine un po’ meno divinizzata dell’uomo Dante, sperando che tutti possiate sentirlo più vicino, più umano. Anziché guardarlo da sotto in su, assiso sul suo irraggiungibile monumento di freddo marmo, cinto d’alloro e chiuso in uno sguardo corrucciato, vorremmo cominciare a pensarlo come una persona normale. Ed estremamente geniale.
Potremo allora avvicinarci a lui, dargli la mano, chiedergli come sta e farcelo un po’ amico.

Sarà così che avremo imparato un po’ di più sulla gente che
ha fatto grande Firenze e la Toscana: gente normale, piena di difetti, ma con tanto da dare, soprattutto se è messa alla prova con grandi difficoltà da superare.
Il nostro augurio è che la grande prova che stiamo superando in questi mesi di difficoltà e - a tratti - di sconforto, sia la molla che faccia scattare le virtù che da secoli ci portiamo dietro e amiamo diffondere in tutto il mondo.
Villa il Poggiale vi aspetta per condividere con voi tutti gli aspetti legati alle celebrazioni dantesche del 2021, ricche di eventi culturali, approfondimenti e manifestazioni a Firenze ed in tutto il territorio toscano.
A presto!